Due brutti incidenti, di cui uno purtroppo mortale, accaduti peraltro dopo un lunghissimo periodo di tempo in cui non si erano verificavano fatti gravi in pista, hanno riportato in primissimo piano il tema della sicurezza. Ne sono nate numerose discussioni, talvolta aspre, dove noi siamo intervenuti senza nasconderci.
Così, mentre rinnoviamo le più sentite condoglianze alla famiglia di Giovanni Olivieri e i più sinceri auguri ad Alberto Ghioni, gravemente infortunato ma in leggero, continuo miglioramento, credo sia necessario aggiungere alcune considerazioni.
Il tema della sicurezza ci sta molto a cuore. Non siamo né indifferenti, né semplici spettatori passivi. Deve essere assolutamente chiaro. La Commissione Impianti della FMI è all’opera tutti i giorni per visionare circuiti, stabilire prescrizioni, verificare che le disposizioni siano effettivamente applicate. Qualche volta, però, tutto questo non basta. Può accadere l’imprevisto, quello che nessuno di noi (e di voi) vorrebbe sapere, o leggere, o sentire. Così, dopo la prima fase di emozione e di commozione scatta la rabbia, compresa la contestazione alla Federazione, spesso accusata di “non fare abbastanza”.
Non siamo d’accordo. Le motociclette vedono evolvere le prestazioni con una rapidità impressionante. Si vorrebbe che anche le piste venissero modificate con altrettanta e continua rapidità. Pena, si chiede, la mancata omologazione dell’impianto o addirittura la revoca dell’omologazione stessa.
Deve essere chiaro che non possiamo e non vogliamo agire sull’onda dell’emozione. Esistono delle regole e delle procedure di omologazione, che noi riteniamo sufficienti. Norme che vengono aggiornate periodicamente, come periodicamente svolgiamo ispezioni sugli impianti. In Italia c’è una scarsa offerta di circuiti, a fronte di una domanda elevatissima. E’ necessario fare i conti con la realtà. Non possiamo obbligare i privati a costruire nuovi impianti, non possiamo costruirne noi (non è il nostro mestiere, non abbiamo le ingenti risorse economiche necessarie). Dobbiamo gestire al meglio l’esistente.
Potremmo pretendere misure di sicurezza estreme. Potremmo anche bloccare l’attività. Ma sarebbe una soluzione? Si fermerebbe (forse) l’attività sportiva (la nostra, ma forse non quella di altre associazioni). Noi lavoriamo in accordo sempre più stretto con i gestori degli impianti, ma dobbiamo ricordare che si tratta di privati che agiscono (e decidono) su impianti di loro proprietà.
Capisco che le parole “prudenza”, “pazienza”, “accordi”, “verifiche” (quelle che noi usiamo tutti i giorni, anche nei confronti di chi gestisce gli impianti), mal si conciliano con “passione”, che anima i piloti ad ogni livello e tutti coloro che scendono comunque in pista.
Ma, ugualmente, credo non si possa fare a meno del nostro modo di lavorare.
Qualcuno è arrivato a dire che noi dovremmo interrompere una manifestazione, di fronte a fatti gravi. Mi domando: quanto gravi? Anche quando sono chiaramente frutto di fatalità?
E inoltre: quando accade un fatto grave, ognuno di noi viene toccato nella propria sensibilità. Siamo tutti adulti, responsabili, svolgiamo un’attività lavorativa. Siamo sicuri di volere che un Ente “superiore” decida se si può correre o meno, dopo un fatto grave? Non siamo abbastanza “adulti” per farci guidare dalla nostra sensibilità, per decidere se rimanere in pista, oppure prendere la macchina e tornare a casa? Chi ce lo impedisce?
Paolo Sesti